Massimo Urbani

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Logan_wx
view post Posted on 7/5/2006, 20:01




il topic che dedico con tutto il cuore a quello che per me rimane ancora oggi il più grande jazzista italiano..


Massimo Urbani

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un grande protagonista del jazz contemporaneo
Massimo Urbani é stato uno dei personaggi di maggior rilievo nella storia del jazz italiano ed europeo ed un ammirato solista da molti musicisti di spicco del jazz americano come Sonny Stitt, Kenny Barron, Bobby Watson, etc.
Nato a Roma nel 1957 da una famiglia molto numerosa di immigrati abruzzesi di umili origini (suo padre faceva il bidello in un liceo romano) rimase orfano di madre fin da bambino e si dedicò giovanissimo allo studio del sassofono cominciando ben presto la vita del musicista di strada.
Dopo gli esordi al conservatorio di Santa Cecilia a Roma nei corsi di jazz tenuti da Giorgio Gaslini si rivelò da subito un formidabile talento improvvisativo dalla grande inventiva con una voce lirica, graffiante, fluente e piena di pathos, legato a filo doppio al senso del blues in cui era possibile ravvisare gli echi sia di John Coltrane che di Ornette Coleman e soprattutto di Charlie Parker che rimase per sempre il suo principale ispiratore.
Artista autentico e sincero, sapeva unire una grande energia ad un commovente lirismo in una musica vorticosa e di forte impatto drammatico, che bruciava nell’improvvisazione tutto il pensiero creativo del suo autore.
Del jazz Urbani amava questa immediatezza, il contatto diretto con il pubblico, la possibilità di mettersi in gioco aprendo agli altri lo scirgno dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti più profondi.
Negli anni 80, proprio quando si assisteva ad una crescita senza pari del panorama jazzistico nazionale, Urbani si trovò, paradossalmente e vergognosamente, in una condizione di emarginazione, nonostante l’enorme, immutata stima dei musicisti, almeno di quelli che mettevano la musica, e non le pubbliche relazione, con "critici di ben scarsa consistenza", al primo posto.
Strumentista di livello assoluto, sapeva tradurre all’istante, come tutti i grandi veri jazzisti, le sue idee in suoni, bruciando intuizioni che ad altri meno dotati, sarebbero serviti per mesi di lavoro, magari progettando a tavolino e ben lontano dal rischio della esibizione "live" che lui tanto amava.
E, del mondo del jazz, travolgente e carico di passioni, viveva anche le abitudini negative che a volte portano all’autodistruzione, morendo nel giugno del 1993, a soli trentasei anni, per gli stessi problemi che avevano afflitto l’esistenza del suo principale ispiratore: Charlie Parker.


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So long Massimo

Conobbi Massimo Urbani, nel 1974, quando venne a suonare a Torino con il quartetto di Enrico Rava. Ebbi la sensazione immediata di trovarmi di fronte ad un musicista originale, non una fotocopia, più o meno riuscita, di un musicista americano. Massimo aveva il jazz nel corredo genetico, facendo sue le lezioni di Parker e di Coltrane e di A. Ayler ( per la sua carica provocatoria e ludica ) formeranno il suo background, pur conoscendo bene la tradizione del suo strumento. Amava Benny Carter e Johnny Hodges ! Il suo apparire sulla scena musicale, fu' salutato come un prodigio, ma, come spesso accade nella storia del jazz, la critica lo incensò, lo viziò, per poi trascurarlo e dimenticarlo dopo qualche anno.
Soggiornò spesso a Torino, vivendo un rapporto di amore odio con la città, si creò intorno a lui una rete di relazioni, affetti, e amori. Mi pare di vederlo incedere un po' goffo con il sorriso di chi la vita la prende per le corna, lo sento raccontare dei suoi incontri, con Phil Woods, Sonny Stitt, Sheila Jordan in un bar di New York, lo sento salutare con quel suo "Yeah man".
Massimo era un uomo inquieto, non sapeva programmare la propria vita in modo razionale e non suonava come i tanti, troppi ragionieri del jazz. Il suo equilibrio dipendeva dalla necessità di suonare, sempre. Le sue dita, piccole e grassocce, si muovevano veloci come saette sul contralto, producendo note su note che si libravano verso il cielo, perforandolo per spargere quel suono lirico, virile, struggente, lacerante molto bluesy, per farlo ricadere sugli ascoltatori attoniti come un pulviscolo fatto di diesis, bemolle, quinte, settime, blue note insomma. Ecco perché suonava il sax sollevato verso il soffitto, con gli occhi rovesciati all'indietro, assorto come in stato di trance. Pochi suonavano "Soul eyes " come lui, inanellava un tema dopo l'altro " Trane from the East " e " You don't what love is" e le riletture parkeriane "Cherokee, Scrapple from the apple " con l'amore che Massimo nutriva per il grande "Bird ".
Ora grazie al Dio della musica la sua Arte è immortalata dalla Red Records (non tutta purtroppo) e basta ascoltarla per comprenderne il suo valore.
So Long Massimo......
Massimo Carabetta




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Note di copertina del disco "The Blessing"

Massimo Urbani é morto per una overdose di eroina. Colto da un malore nella sua abitazione, in via Dati, nel quartiere di primavalle . dove viveva con tre fratelli e una sorella - dopo aver assunto una dose di stupefacente é stato trasportato nell’ospedale San Filippo Neri dove é deceduto.
Una morte annunciata, segnata dal fato, dalla cronaca, dall’indifferenza che fa soccombere il genio in questo mondo di cretini. Come un piccolo Mozart, Massimo Urbani aveva esordito nel suo mestiere appena sedicenne facendo stupire il mondo (segregato) del jazz con un linguaggio disinibito, libero sciolto assolutamente ispirato, mai accademico....un poeta in mezzo ai funzionarietti e alle mezzemaniche del jazz nazionale suonato, scirtto, organizzato. In questo paese dove i media si occupano delle tette al silicone della maggiorata di turno, dei capelli di di plastica del presentatore e delle laringi arruginite della moglie del funzionario, dove un concerto (concerto?) di (censura) ottiene le colonne che non ha mai ottenuto un concerto (concerto!) di Leonard Bernstein, Massimo Urbani era la vittima designata di un sistema culturale dove la cultura é assente.
L’overdose che lo ha ucciso gli é stata fornita dall’ignoranza, dall’indifferenza, dalla grettezza della società bottegaia, distratta e rozza, attenta solamente alle mode, alla volgarità del luogo comune, una società che si merita, altrove, le batoste di Tangentopoli, e, sempre altrove, il prevalere di un Leghismo urlatore, sbraitante, pericoloso. Ma pari responsabilità è attribuibile ai “soliti noti” che dominano la vita concertistica e festivaliera del jazz in Italia.
Urbani potrebbe essere il personaggio ideale per un racconto di Geoff Dyer (attualmente in vetrina con il suo bel libro “Natura morta con custodia di sax”) perché la sua musica, la sua anima paiono in perfetta simbiosi con lo spirito che anima quei tragici personaggi evocati da Dyer: Monk, Powell, Baker, Pepper, gli angeli neri della droga vissuta come rifugio per una schiera di guerrieri sconfitti dalla vita, vincitori sul piano morale nella guerra contro l’appiattimento della mediocrità, del servilismo. Tra le tante mezzemaniche del jazz italiano che a Natale spediscono accorate letterine al critico titolato (per accompagnare un sontuoso impianto Hi-Fi), Urbani era invece capace di mandare al diavolo anche chi gli sarebbe stato utile per migliorare una carriera, per apparire in un siparietto televisivo, per avere una copertina sulla rivista che conta, era fedele al suo primo modello, quel Charlie Parker che insieme con tanta musica ha sempre dato lezione di orgoglio, di virile coraggio. Un Jazzman anomalo, violento, solitario, in mezzo al perbenismo ruffiano che circola in questi ultimi anni. Ma urbani faceva musica con il cuore (e con la testa), gli altri hanno imparato la grammatica in stile Berklee e rimangono nel branco.
Massimo Urbani ha suonato accanto a molti importanti musicisti americani e italiani (Beaver Harris, Giovanni Tommaso, Luigi Bonafede, larry Nocella, Roberto Gatto, Danilo Rea, Chet Baker, Art Farmer, Jack De Johnette, Sonny Stitt, Phil Woods). Non gli era negato nessun traguardo: la fantasia sbrigliata, il gusto armonico, un senso ritmico impetuoso e raffinato, un orecchio sensibilissimo, una energia quasi rabbiosa gli consentivano di esplorare i più reconditi segreti del brano sul quale stava improvvisando.
Il suo modello agli esordi fu Charlie Parker, ma anche Sonny Stitt, Jackie Mclean, Ornette Coleman e Albert Ayler si annoverano tra i suoi maestri. Maestri ben presto abbandonati perché Massimo Urbani da quasi subito era solamente Urbani, IL Massimo.

Franco Mondini (articolo scritto per La Stampa di Torino il 25.06.93)
 
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Logan_wx
view post Posted on 5/3/2007, 17:46




Max LIVES
 
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Jean.ph
view post Posted on 5/3/2007, 19:07




Decisamente LIVES

(finalmente Logan. E' stato fatto il "trasloco":D )
 
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3 replies since 7/5/2006, 20:01   548 views
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